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The Dark Pictures Anthology: torna la paura sui nostri monitor

Discussione in 'Videogiochi' iniziata da f5f9, 5 Novembre 2020.

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  1. f5f9

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    Premessa: credo che non tutti conoscano i Supermassive Games i quali, dopo alcuni giochi “minori”, esplosero circa cinque anni fa su PS4 con “Until down”, un horror interattivo estremamente ricco di jumpscare e sfaccettature. Il loro gameplay è analogo a quello dell’immenso David Cage (Fahrenheit, Heavy rain, Beyond two souls, Detroit) e dei compianti Telltale, basato soprattutto sui quick time event.
    È, a mio personale parere, uno dei più infelici, ma in questo genere nessuno è ancora riuscito a inventarsi qualcosa di meglio e di altrettanto appropriato. Il tipo di struttura narrativa, ispirata dall’iconico “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, è sempre la stessa: in un luogo chiuso un piccolo gruppo di vittime designate si affanna a sfuggire un misterioso pericolo.
    Naturalmente non possono contare né su vie di fuga, né su comunicazioni con l’esterno. Lo schema funziona sempre benissimo per generare suspence ed è un’ottima occasione per lo studio entomologico di psicologie intrappolate in una situazione estrema.
    Il modello porta però con sé l’esigenza di un twist finale originale e spiazzante e non sempre, negli infiniti tentativi di imitazione, la soluzione è risultata soddisfacente.
    Per quanto riguarda le opere dei Supermassive, in Until down la “sorpresona” era a metà gioco, la seconda parte continuava a essere avvincente per merito dell’abilità registica, meno per la trama. Dopo il (meritatissimo) successo di quel gioco, i talentuosi dev hanno pensato di cavalcare la voga dei serial e hanno avviato “The Dark Pictures Anthology”, una serie di vg relativamente brevi e autoconclusivi.
    Il tema del primo, “Men of Medan”, era la classica “nave fantasma” ispirata all’inquietante vicenda della “Ourang Medan”, un mercantile (guarda un po’) olandese (anche se non volante) che, nel secondo dopoguerra, scomparì in acque indonesiane con tutto il suo equipaggio vittima, si racconta, di orrori indicibili.
    upload_2020-11-5_0-4-16.jpeg
    il presunto Ourang Medan
    In seguito spuntarono ipotesi tanto bislacche quanto suggestive ma, in realtà, non c’è neanche la prova definitiva che quella nave sia mai esistita. Ma come leggenda metropolitana resta comunque assai intrigante, tanto da generare vari film e racconti.
    Nel gioco interpretiamo quattro sciroccati vacanzieri più un’avvenente capitana che, in seguito a una serie di sfortunati eventi, si ritrovano proprio intrappolati negli angusti e claustrofobici spazi di quella misteriosa nave.
    Scopo del gioco è quello di salvarne il maggior numero o, nel migliore dei casi, tutti.
    Come in Until down il numero di variabili è enorme e il tasso di rigiocabilità altissimo. La serie prosegue oggi con “Little hope”, lo schema di partenza è identico ma ambientazione e trama vanno in tutt’altra direzione. I giochi si aprono sempre con una presentazione da parte di un ambiguo “Curatore” splendidamente interpretato dall’attore inglese Pip Torrens.
    upload_2020-11-5_0-6-11.jpeg
    È una specie di elfo luciferino che ci introdurrà ai misteri delle cupe vicende fornendo talvolta qualche criptico suggerimento. Segue un breve prologo, con funzione di antefatto, che sciorina una serie di macabri eventi. Il mio consiglio è di seguirlo attentamente dato che contiene molti indizi chiarificatori di quanto avverrà in seguito (e anche di quanto successo in precedenza). A posteriori, addirittura, suggerisco di guardarlo più volte indagando anche sui particolari che sembrano irrilevanti ma che spesso riempiono certi apparenti plot hole. A parere di chi scrive infatti, Little hope dispone della trama migliore finora concepita dai Supermassive, un complesso puzzle che finirà con una spiegazione veramente destabilizzante. Intendiamoci: ormai anche in questo genere è praticamente impossibile inventare qualcosa di assolutamente originale.
    Nel caso specifico l’idea somiglia pericolosamente a quella alla base di un bel thriller del 2003 che non nominerò per scongiurare il pericolo di spoiler, però c’è da dire che qui l’incastro è ancora più articolato e coerente.
    Ovviamente non è lecito anticipare nulla. Mi limiterò a osservare che in questa serie sono presenti tutti i possibili cliché e che le citazioni dei classici sono continue. Questo a partire dalla scelta dei personaggi, per lo più insopportabili giovinastri di una strafottenza così marcata da farci parteggiare per i killer.
    Si tratta, né più, né meno di un cast analogo a quello tipico delle serie horror/giovanilistiche degli anni ’80/90 (Nightmare, Halloween, Creepshow, Scream ecc.).
    Ma tutto il cinema di genere viene qui saccheggiato senza ritegno: le inquietanti atmosfere della città sono alquanto Kinghiane, nel prologo c’è una citazione precisa da “Io ti salverò” di Hitchcock, luci e inquadrature sembrano prese di peso dal più recente The Witch (2015).
    Altro riferimento scontato è quello a “The Blair Witch Project”, da cui prende molti elementi visivi.
    Le citazioni da Poe (corvi e gatti neri, case fatiscenti, il doppleganger William Wilson ecc.) abbondano, così come quelle dall’immancabile Lovecraft (entità malevole che gorgogliano nel buio pronte a ghermire) e quelle sulle streghe di Salem forse malvagie, forse vittime di calunnia (con buona pace di Hawthorne e Miller).
    Semplice copia/incolla?
    A parere di chi scrive no.
    In fondo certe meccaniche sono ormai canonizzate da decenni, l’horror moderno parte dal “gotico americano” di “Psyco” di Hitchcock (e un po’ dall’omonimo quadro di Grant Wood) e in seguito nessuno ha inventato niente di altrettanto rivoluzionario.
    [​IMG]
    Qualsiasi espediente che fornisca tensione e jumpscare è lecito se è realizzato abbastanza bene da tenere desta l’attenzione e purché coerente con la trama.
    Pagato lo scotto al deja vu, a parere di chi scrive le opere dei Supermassive hanno qualche marcia in più rispetto all’attuale concorrenza.
    In primo luogo riprendono l’uso della visuale in terza persona ormai quasi abbandonata dopo l’enorme successo di “Amnesia: The Dark Descent”. Non solo il risultato è più cinematografico ma l’attenzione è acuita dal fatto che il personaggio che stiamo interpretando in un determinato momento potrebbe morire o agire in maniera inadeguata a salvare un compagno. Questo letteralmente costringe a riprovare più volte certe lunghe sequenza senza provare la minima noia visto che, anche se muore qualcuno, la storia prosegue imperterrita pur con le inevitabili varianti. Inoltre le aree sono disseminate di collezionabili, più o meno evidenti, che è indispensabile trovare per capire veramente quello che è avvenuto cinquant’anni e tre secoli fa e quali conseguenze si riverberano sull’oggi.
    I finali sono principalmente tre e, anche se la soluzione dell’enigma è unica.
    Spaziano dal più negativo al meno peggio. Per ottenere quest’ultimo dovremo fare scelte spesso improbabili, controllare le relazioni tra i personaggi e giocare bene le (poche) sequenze action.
    A quest’ultimo proposito, Little hope segna un cambio di passo rispetto ai precedenti vg dei Supermassive: i QTE sono abbastanza rari e notevolmente facilitati, tanto che è difficile fallirli.
    Prima, invece, le sequenze piuttosto frustranti erano più ardue e frequenti, spesso addirittura al punto da spezzare il ritmo.
    La realizzazione tecnica mi è parsa ineccepibile, mai un bug e, malgrado l’alto grado di dettaglio, il gioco è piuttosto leggero.
    Finora ho elencato i Pro.
    Contro? Ben poco.
    La visuale è a imitazione di quella fissa dei primi Resident Evil, per cui a volte non è del tutto agevole guidare il personaggio attraverso porte o passaggi stretti.
    È facile prevedere che la carriera degli attori coinvolti (salvo forse uno) non sarà costellata di Oscar.
    Il genere è certamente di nicchia e il gioco non potrà piacere a chi non lo ama o è debole di cuore.
    Potrebbe anche infastidire questa mancanza di innovazione, ma è mia assoluta convinzione che è meglio essere bravi che originali, d’altra parte Morandi ha dipinto solo bottiglie e Fellini ha fatto sempre lo stesso film.
    Infine, ciliegina sulla torta: anche questo gioco dei Supermassive è interamente doppiato in italiano e pure in maniera degna.
    La cosa è sorprendente visto che le cinque o sei ore di durata sono prevalentemente occupate da dialoghi e discussioni.
    Inoltre le numerosissime varianti di trama ne implicano altrettante nell’imponente mole di script.
    Un’altra ragione, per noi orfani dei Silent Hill, di gratitudine per questa talentuosissima SH.

    Come dice il Curatore: "questa bambina è in pericolo o è il pericolo?"
    [​IMG]
    N.B.: la paura di spoilerare mi impedisce di allegare altre immagini in game
     
    Ultima modifica: 28 Maggio 2021
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  2. f5f9

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    e adesso ho fatto anche "House of Ashes"

    House of Ashes è un gioco meraviglioso, ma non per tutti stante che è un vero e proprio “film interattivo”, ossia appartiene a un genere che conta una pletora di detrattori.
    Ricordiamo che i Supermassive, dopo qualche gioco minore, esplosero su PS4 coll’ormai mitico “Until Down” (2015) che vantava uno script enorme (oltre millecento pagine!). Non per la lunghezza, ma per l’incredibile numero di varianti possibili.
    L’origine dei moderni vg narrativi possiamo datarla 2005, quando uscì il fondamentale “Fahrenheit: Indigo Prophecy” di quel genio di David Cage (ma qui, pare, lo script era addirittura di duemila pagine!).
    Erano finalmente nati i famigerati “film interattivi” che tanto vengono osteggiati dai giocatori più tradizionalisti.
    I personaggi si muovono autonomamente fino a certi eventi in cui il giocatore deve compiere scelte o risolvere dei QTE (Quick Time Events) che determineranno gli sviluppi successivi della storia e la sorte dei nostri alter ego.
    “Until Down” strizzava l’occhio agli horror/slasher giovanilisti anni ’80 e disponeva, nella prima metà, di un’ottima trama gialla che però, successivamente, si sfilacciava quando apparivano quasi inaspettatamente delle creature mostruose un po’ incongrue e che parevano aggiunte per allungare il brodo.
    Forse i dev stessi si sono resi conto che una maggior concisione meglio si adatta al genere, così hanno deciso di proseguire il loro cammino con giochi più unitari e corti come racconti e non come romanzi.
    Quindi, nel 2019, parte la serie “The Dark Pictures Anthology”. Il primo episodio, “Man of Medan” perfeziona ulteriormente la formula.
    Si tratta sempre di “sei (circa) personaggi in cerca di scampo” dopo essere stati catapultati in un vero e proprio inferno.
    Scopo del gioco è quello di salvare la pelle al maggior numero di loro o, meglio, a tutti. Anche se non sembra, è sempre possibile.
    Per ottenere il finale migliore bisognerà risolvere i QTE e dare le risposte più appropriate nei dialoghi. Già, perché gli sviluppi sono anche in funzione dei rapporti tra i personaggi e sull’impatto di scelte ed eventi sulla loro personalità. La quale viene sempre sommariamente inquadrata durante la presentazione ma in seguito può anche mutare più o meno profondamente.

    Vien da pensare che con “House of Ashes” il cinema tradizionale termina la sua lunga agonia.

    Formalmente sembra un film vero e proprio fatto con attori, scenografie, riprese in studio ed esterni, una pletora di effetti speciali ecc.. Ma qui la storia la plasma il giocatore, con le sue scelte e i suoi riflessi. È possibile ripetere l’esperienza molte volte cambiando sempre avvenimenti e finale.
    Nel terzo capitolo, per esempio, mi è capitato di non essere riuscito a salvane un certo npc. Nelle successive due ore il gioco è andato avanti lo stesso, ma avevo intuito di aver commesso un errore. Ho caricato un capitolo precedente e sono riuscito a tenere in vita quel poveraccio. Le sequenze successive erano abbastanza simili, ma questa volta c’era anche il ferito portato a braccia. Poi si è un po’ ripreso e ha partecipato a molti eventi successivi finché, verso la fine, ho constatato che la sua sopravvivenza era necessaria per ottenere il finale migliore.
    Fantastico!
    Ovviamente, data la fondamentale importanza della componente narrativa, non si può anticipare nulla, ma credo di poter dire che il gioco comincia come un kolossal storico, poi si traveste da film di guerra e successivamente cambia di nuovo genere, pescando a piene mani da serie di film molto iconici che non posso citare per non rischiare spoiler.
    Sì, è molto derivativo ma gli elementi sono ben amalgamati ed è realizzato con una tale maestria da guadagnarsi una sua peculiare personalità.
    Tecnicamente, malgrado qualche sporadica caduta, è impressionante: regia, recitazione, montaggio sono di altissima professionalità, molte inquadrature ed effetti di luce lasciano veramente a bocca aperta. Come se non bastasse, il doppiaggio in italiano è praticamente impeccabile.
    La performance di Pip Torrens, nel ruolo di quella specie di elfo elegantissimo e ambiguo che è il "Curatore", varrebbe da sola l'acquisto del gioco.
    Fino al già splendido “Little Hope” Supermassive utilizzava le inquadrature fisse (stile “Resident Evil”) ma questa volta la telecamera è diventata assai più dinamica, quella alle spalle dei personaggi è comunque prevalente e questa impostazione si è rivelata vincente.
    Personalmente odio i QTE e mi trovo spesso in difficoltà, anche perché il gioco scorre come un film estremamente appassionate e quindi il dover intervenire improvvisamente può spiazzare. Però, tramite le opzioni di “accessibilità” il gioco può diventare fruibile anche da un malato di gotta.
    E adesso non mi resta che aspettare il prossimo “Dipinto in nero” già annunciato nei titoli di coda. L’impressione è che vogliano ritornare a una paura meno “kolossal” e più “intimista”. Comunque sia sono già certo che sarà un altro grande gioco e sono pronto al pre order.
     
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  3. f5f9

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    metto qui i miei pensierini sul nuovo vg dei sommi Supermassive, per l'esattezza su:
    The quarry

    Supermassive colpisce ancora. Come ampiamente previsto, The Quarry è a tutti gli effetti un “Until down 2”.
    Tornano anche, come nel loro tanto celebrato vg di sette anni fa, a scimmiottare i teen horror degli anni ’80 (Venerdì 13, Halloween, Nightmare ecc.) e ’90 in cui, sempre, un gruppuscolo di adolescenti inquieti finiva in qualche posto sperduto e ogni componente del gruppo veniva meticolosamente smembrato da un maniaco o da un’entità esoterica. Per prassi le prime vittime erano le coppiette che si appartavano.
    Quel genere specifico non mi è mai piaciuto, gli eccessi di gore mi annoiano a morte anche perché raramente alla base si trova un’idea abbastanza brillante da giustificarlo.
    L’horror interessante, per me, è psicologico, è quello che scava negli strati più profondi dell’inconscio, dialoga e magari si confonde con la realtà. Proprio come ci hanno insegnato certi capolavori cinematografici assoluti (Il gabinetto del Dottor Caligari, Vampyr, Psyco, Shining ecc.) o Avventure Grafiche come Sanitarium.
    A questo secondo (e nobile) filone si sono ispirati anche i Supermassive con lo splendido Little Hope, il secondo episodio della serie “The dark pictures”.
    Comunque anche “The Quarry”, come “Until Down” riesce a mantenere vivo l’interesse per tutto il tempo dosando abilmente lo splatter con le sequenze di esplorazione e di indagine.
    Lo spunto di partenza è il più classico e stravisto, abbiamo i soliti “sei (o più) piccoli indiani NON in cerca di autore ma di scampo”. Formula che funziona sempre, soprattutto se tra gli ingredienti è stata immessa una buona dose di Resident Evil. Infatti anche la visuale dei primi giochi di Supermassive era fissa, la telecamera alle spalle del PG è stata introdotta solo con “The house of ashes”.
    La psicologia dei personaggi è alquanto varia e curata con notevole profondità. Abbiamo a che fare con quel tipo di adolescenti (abbastanza sgradevoli) rigidamente canonizzato nei teen horror anni ‘80: ragazzini spocchiosi, nevrotici, ansiosi di piacere e di prevalere, proprio come siamo stati tutti a quell’età.
    Però le varie personalità vengono progressivamente approfondite tanto che, andando avanti, rivelano anche lati positivi, principi, forze e fragilità che riescono di suscitare un po’ di affezione.
    Molto merito va riconosciuto all’eccezionale motion capture che restituisce non solo le emozioni superficiali ma anche sentimenti che vorrebbero essere nascosti.
    Perché il povero Jacob sta piangendo?
    jacob piange.jpg
    L’intensità dei volti viene spesso espressionisticamente aumentata con abili espedienti. Capita che globi oculari e iridi, per esempio, vengano dilatati al limite della caricatura per meglio far percepire lo sgomento e/o “l’odore della paura”.

    perché la graziosa Kaitlyn è così sorpresa?
    Kaitlyn sorpresa.jpg
    La trama, anche questa volta, è apparecchiata coi soliti cliché sfruttando uno dei miti più abusati nel genere. Ma funziona comunque benissimo per merito di colpi di scena non troppo telefonati, jumpscare, tensione spasmodica durante le fasi esplorative, brillanti invenzioni narrative e di sceneggiatura che nascondono il déjà vu.
    Capita di aver maturato l’illusione di potersi rilassare guardando una specie di film, ma inaspettatamente esplode una frenetica sequenza interattiva che impone un brusco risveglio riprendendo il controllo del pad. Succede che scatti un QTE o si debba compiere una scelta in una frazione di secondo, ben sapendo che un errore anche minimo potrà decretare la morte di uno o più personaggi. Di solito non vengono forniti indizi né il tempo per valutare la correttezza della nostra reazione. Capita anche che vengano segnalate azioni che potrebbero essere potenzialmente risolutive o foriere di tragedia. Le conseguenze spesso non sono prevedibili.
    Nella prima run il salvataggio, giustamente e sadicamente, è unico e non si può tornare indietro salvo riprendere il gioco da capo confidando nella memoria e nei riflessi.
    Nota: la possibilità di ricominciare da uno qualunque degli episodi è concessa solo dopo aver completato almeno una volta il gioco.
    Dopo il prologo il ritmo pare assai lento ma poi registra un progressivo crescendo fino a diventare frenetico negli ultimi capitoli. Azioni e scelte iniziali (durante le fasi più “calme”) potranno avere un peso determinante sugli eventi successivi. Da questo punto di vista il lavoro di Supermassive è, come sempre, semplicemente titanico. Anche se lo scheletro della trama non cambia molto, le ramificazioni sono estremamente numerose e incisive.
    Per esempio: in uno dei primi capitoli può capitare di non riuscire a tenere in vita un personaggio fondamentale che, in una fase successiva avrebbe potuto salvarne altri. La vicenda prosegue comunque senza di lui, senza perdere coerenza e/o prendendo altre direzioni. Certi episodi successivi saranno assai simili variando solo per l’assenza del caro estinto. Altri cambieranno drasticamente.
    D’altra parte lo script di “Until down” era di circa millecento pagine e quello di “The quarry” non è certamente da meno.
    Una cosa è subito evidente: Supermassive vuole costringere i giocatori a effettuare più run.
    A default, infatti, il gioco è di una difficoltà assurda, chi anela a salvare tutti proverà tremende frustrazioni.
    Questo perché i tempi per effettuare le scelte e risolvere i QTE sono al di sotto del minimo. Inoltre, sempre a default, i QTE sono segnalati da un semplice “pallino bianco” senza l’indicazione della direzione in cui vanno orientate le levette: naturalmente non c’è il tempo per analizzare l’immagine in modo da fare la scelta giusta.
    Ma per i pigri e gli impazienti che non vogliono rifare più volte il gioco, Supermassive ha deciso di facilitare le cose a dismisura, offrendo una grossa gamma di facilitazioni che vanno dal semplice aiutino alla possibilità di guardare un film non interattivo.
    Nei menù è possibile scegliere addirittura di imporre QTE e mira già risolti a priori o con tempi più o meno dilatati, si può optare per una semplice pressione di un tasto invece di pressioni forsennate, la mira può essere assistita e addirittura automatica ecc..
    C’è anche la possibilità di guardarsi il “film” senza impugnare il pad scegliendo preventivamente se i PG dovranno tutti morire o salvarsi.
    La ciliegina sulla torta è la “modalità regista” con la quale si stabilisce in partenza la personalità, la forza, la reattività e le attitudini di ogni personaggio e poi ci si siede tranquillamente a guardare cosa succede.
    “Artisticamente” il gioco è veramente impressionante e realizzato con somma maestria,
    bivacco.jpg
    lo stesso vale per il sonoro e per il doppiaggio in italiano veramente di buon livello.
    Le noti dolenti arrivano con l’ottimizzazione: l’obbligatorietà del launcher 2k e l’infausta presenza di Denuvo riducono le prestazioni su PC a livelli indecenti e comunque non proporzionati a quanto viene mosso a schermo.
    In definitiva “The quarry” è un survival non molto lontano dalla perfezione ed è forse il prodotto più maturo dei Supermassive, ma chi non ama il genere, aborre i filmati e non sopporta questo tipo di gameplay è meglio si tenga a debita distanza.
    Tra i suoi pregi c’è quello supremo di non prendersi troppo sul serio, di sforzarsi per intrattenere e appassionare senza velleità artisticheggianti né sconfinamenti nei massimi sistemi. Non ho neanche riscontrato (nel 2022!) lezioncine con tanto di ditino alzato su tematiche gender o ecologisteggianti di maniera. Solo divertimento ed estrema cura artigianale. Basterebbe questo per giurare eterna riconoscenza a Supermassive.
     
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  4. f5f9

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    E così ho finito anche:
    The Dark Pictures Anthology: The Devil in Me

    Perdonatemi: parto forse un po’ troppo da lontano ma l’argomento “horror“ è molto più complesso di quanto generalmente si pensi.
    Il cinema e il cinema horror nascono insieme, addirittura per mano dello stesso Méliés, si sviluppa già dagli inizi del secolo scorso e assai presto produce i primi capolavori di Wiene, Murnau e degli altri maestri dell’Espressionismo tedesco che, come poi abbiamo capito, era riuscito a prevedere gli orrori nazisti con largo anticipo.
    Da allora la produzione di questi film è sempre stata sovrabbondante, forse abbiamo un bisogno continuo di esorcizzare le nostre paure e ritrovare il nostro quotidiano all’uscita del cinema. Quanto è rassicurante dirsi “quelli nel film stavano messi peggio di me”? Anche se la giustificazione è discutibilissima.
    Sta di fatto che il genere ci ha regalato, in un mare di ignobili boiate, anche capolavori epocali.
    L’anno chiave è il 1960 quando Hitchcock tirò fuori dal cilindro “Psyco”, il prototipo del “Gotico Americano” che, oltre a potersi forse vantare della regia più tecnicamente perfetta di sempre, è diventato l’archetipo di tutti i successivi film “da paura” e non solo. Ha anche dato origine a infinite citazioni (o meglio: “copie”) e a vari tentativi di remake (fino alla versione 1:1 di Gus Van Sant del 1999 che differiva dall’originale solo per l’infelice uso del colore).
    L’influenza di Psyco è particolarmente vistosa negli slasher degli anni ’70 e ’80, ossia in quei film di serie B (o inferiore) improntati sul gore cui però diedero lustro registi di gran peso come John Carpenter, Wes Craven, Tobe Hooper e altri (tra i quali il nostro Dario Argento nei suoi passati momenti di felicità creativa).
    Qui arriviamo finalmente al punto.
    Il genere inevitabilmente tramontò, vittima della propria ripetitività nel rappresentare ossessivamente bieche e disturbanti macellerie, ma oggi i Supermassive l’hanno astutamente riesumato e astutamente sfruttato col valore aggiunto dell’interattività.
    Infatti le tecniche attuali ci consentono di scegliere come muovere gli attori, interagire con gli scenari, avere paura di sbagliare e poter cambiare il corso degli eventi, riuscendo a rendere avvincenti anche storie che subite passivamente in un film avrebbero finito per provocare solo sbadigli.
    La loro prima opera, l’ormai mitico “Until down”, era uscita sette anni fa in esclusiva PS4 suscitando un grande entusiasmo di critica e pubblico.
    Le loro produzioni successive sono sempre state coerenti con quel “prototipo” e ne hanno sempre ripetuto la struttura vincente: il cast di solito comprende dei “giovinastri” piuttosto frustrati e antipatici sul tipo di quelli dei citati slasher degli anni ’80.
    In ogni episodio dovremo cercare di aiutare cinque (o più) “piccoli indiani” a fuggire da entità malevole, non necessariamente umane ma sempre assetate di sangue ma.
    La vecchia e cara Agatha, ovunque sia, sorride sorniona.
    Naturalmente l’azione si svolge sempre in un’area isolata dove, guarda caso, radio e cellulari sono indisponibili o non hanno campo.
    Il gameplay si basa soprattutto su esplorazione, scelte e QTE con cui cercheremo di salvare la pelle al maggior numero di questi sfortunati. È possibile giocare in singolo o in coop locale.
    I primi episodi prevedevano la visuale fissa come i primi “Resident Evil”. Ma in seguito, a quanto pare, i Supermassive si sono resi conto che quell’impostazione, che tanto ancora esalta i vecchi fan della serie nipponica, non nasceva da esigenze di gameplay ma dai limiti tecnici dell’epoca, per cui negli ultimi episodi hanno adottato la telecamera mobile che segue i personaggi.
    Anche narrativamente lo schema è fisso: c’è sempre un prologo che evoca terribili avvenimenti passati, magari da pochi giorni, ma anche da anni o secoli, in qualche caso addirittura millenni.
    Poi l’azione salta bruscamente a oggi per riscatenare il peggiore degli incubi.
    “The Devil in Me”, quarto tra i dieci capitoli previsti di questa divertentissima serie, non smentisce l’ottimo livello di quelli precedenti ma sta ricevendo critiche piuttosto tiepide.
    Ingiustamente a parere di chi scrive. Molti sostengono che il gioco è “rotto” e pieno di bug.
    Effettivamente quella di mettere prematuramente in vendita i loro vg è, purtroppo, una pessima abitudine dei Supermassive fin da quando li hanno fatto sbarcare anche su PC. A chi scrive è capitato addirittura questo:
    collo storto.jpg
    ma, fortunatamente, nient’altro che potesse in qualche modo bloccare o rallentare l’esperienza.
    È evidente che i Supermassive traggono sempre spunti da altre opere letterarie e/o cinematografiche, ma poi apportano profonde modifiche ai modelli in modo da garantire un buon grado di originalità.
    Tra suspense e jumpscare in quantità industriale è vistosa lo sforzo di introdurre sorprese e cambi di prospettiva a getto continuo per evitare qualsiasi pericolo di noia.
    È anche assai divertente la massa di citazioni e di easter egg. In “The Devil in Me”, per esempio, ci sono almeno due citazioni molto evidenziate del citato “Psyco” e altre della serie cinematografica “Saw”.
    citazione Psyco.jpg
    Lo scopo di questi giochi non è “artistico” ma di divertirci e tenerci attaccati allo schermo.
    Il versante “nobile” degli horror, ossia quello dello scavo psicoanalitico nel profondo e nell’inconscio che ci ha regalato capolavori assoluti come, per esempio, “Silent hill 2” in campo ludico e “Shinig” nel cinema, di solito è assente o viene appena sfiorato.
    La complessità, invece, è nella costruzione delle trame e nei meccanismi ludici: sono giochi che possono durare anche solo un’ora se affrontati con sciatteria. Così operando i nostri non eroi vengono eliminati già nelle prime scene e tutto finisce quasi prima di incominciare. Con un minimo di impegno, invece, si possono salvare tutti ottenendo il cosiddetto “lietissimo fine”.
    Il quale non è poi così arduo da conseguire viste alcune facilitazioni che ci vengono concesse da subito: nelle impostazioni di “accessibilità” possiamo scegliere di non eseguire serie forsennate di pressioni su un tasto ma operare con un semplice sfioramento, il tempo dei QTE può essere dilatato quasi a piacere ecc.. Inoltre, ogni volta che abbiamo sbagliato qualcosa, potremo di ricaricare qualsiasi capitolo e addirittura tutte le sue sezioni, l’ultima compresa.
    Un aspetto davvero impressionante è la varietà delle situazioni possibili: quasi tutti i personaggi possono essere eliminati all’inizio ma, se riusciamo a salvarli, i successivi sviluppi della trama cambiano del tutto.
    Quindi se, per esempio, Charlie viene assassinato subito, la storia andrà avanti senza di lui. Ma se riusciamo a salvarlo lo ritroveremo, il poveretto rischierà altre volte la vita ma magari sarà anche messo in condizione di salvare qualche suo compagno altrettanto sfortunato.
    Questo vale per tutti i personaggi, quindi la storia presenta un numero impressionante di varianti, ramificazioni e finali, anche se lo scioglimento dell’enigma di base è unico.
    Ne consegue che la mole dei dialoghi possibili è enorme e lo script di tremenda complessità.
    Infatti, tra i bug segnalati, qualcuno dice di aver intravisto in un filmato un personaggio che nella sua partita era precedentemente defunto (!).
    Più che degno il comparto tecnico/grafico e il sonoro. Doppiaggio in italiano a livelli accettabili anche se in un paio di casi qualche frase è rimasta in inglese.
    Qui mi fermo senza neppure accennare agli assunti su cui si basa il gioco. Mi limiterò a confermare che fortunatamente ritroveremo il “Curatore” cui l’attore Pip Torrens regala un inquietante cinismo e che l’ormai inevitabile sermoncino woke è presente ma fortunatamente appena accennato e solo all’inizio.
    curatore.jpg
    Consiglio infine a chi fosse interessato di non guardare neanche i trailer ufficiali, si tratta di giochi che vanno scoperti e assaporati fotogramma per fotogramma fin dai titoli introduttivi.
     
    Ultima modifica: 8 Febbraio 2023
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  5. alaris

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    Bella rece...ma il genere e i Qte, a cui sono allergico, non mi piacciono e poi con tre bypass...l'horror e gli eventuali salti sulla sedia non sono gli ideali.