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Death Stranding

Discussione in 'Videogiochi' iniziata da Matteum Primo, 14 Giugno 2016.

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  1. baarzo

    baarzo Supporter

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    MA anche voi avevate costruito un unica funivia che collegava tutte le basi della mappa centrale o era una psicosi? :D
     
  2. Mesenzio

    Mesenzio Contemptor Deum Editore

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    Tutte no, ma di sicuro alla fine la funivia era quella che usavo di più.
     
  3. f5f9

    f5f9 si sta stirando Ex staff

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    E così mi sono fatto la seconda run di Death stranding, questa volta la Dc su PC
    QQuindi, non pago di avervi scaramellato gli zebdei già una volta con un wottone dopo il primo giro, faccio il recidivo e aggiungo un po' di cose che ho pensato in questi giorni rigiocandolo:
    Quando lo giocai per la prima volta e sull’onda dell’entusiasmo, mi sfuggì un’esagerazione: “Death stranding è la “Divina Commedia” dei videogiochi (URCA!).
    Adesso che ho approfondito il gioco con una seconda run nella versione “Drector’s cut” sto cominciando a sospettare che, stranamente, quell’affermazione non fosse poi così azzardata.
    Piaccia o non piaccia, “Death stranding” affronta tutti i temi e gli interrogativi più ardui e “alti” che tormentano la povera mente umana: “da dove veniamo?”, “dove andiamo”? “cosa c’è al di là di ciò che possiamo percepire coi sensi”?
    E tutte le conseguenze ai relativi interrogativi filosofici.
    In realtà io continuo a pensare che Kojima sia soprattutto un visionario tanto estremo quanto lacerato dall’angoscia di riordinare i suoi deliri, giustificarli e dargli un qualche senso compiuto.
    Sia come sia il risultato è di una complessità vertiginosa, tanto che non credo basti una sola run per capire il filo logico che cerca di riordinare una folle quantità di elementi e di eventi.
    Mi azzardo quindi ad anticipare alcuni assunti alla base della trama visto che molte rivelazioni arrivano nei capitoli finali del gioco, in interminabili filmati dialogici non semplicissimi da seguire e con un forte rischio di noia vista l’interruzione quasi totale dell’interattività.
    Piccola nota che non considero uno spoiler ma un’avvertenza: il diabolico Kojima riesce, con uno dei suoi beffardi espedienti, a contrabbandare i Credits mentre il protagonista è impegnato in un’ennesima corsa forsennata. Si è indotti a uscire dal gioco pensando che sia finito, invece il fiume delle “rivelazioni” sta solo per cominciare a fluire.
    Comunque qui, nel suo delirio di onnipotenza, l’autore si azzarda a trattare di altri “Piani di esistenza”. Non si tratta di un concetto molto originale (cfr. Planescape Torment derivato da D&D), ma la sua versione è molto innovativa e personale.
    Nota: metto quanto segue sotto spoiler visto che sono concetti che vengono approfonditi nel (mi pare) quattordicesimo capitolo. Ma, in realtà, reputo che queste parzialissime informazioni possano risultare utili fin dalle fasi iniziali, soprattutto nella prima run in quanto di primo acchito certi luoghi e certi eventi possono sembrare completamente privi di un qualunque senso e giustificazione.
    Lo spunto gli viene dall’antica mitologia egiziana: il “Ka” (ossia il corpo) è un semplice contenitore per l’”Ha”, quella che noi chiamiamo anima. L’Ha interviene per dare vita e mente al feto nel grembo materno e può, in seguito, risiedere sempre nel corpo o allontanarsene per andare in un “altrove” laddove, in determinati casi, lo stesso corpo la può seguire.
    In Death stranding questo “altrove“ è una spiaggia. Per ognuno di noi, anche se pochi ne sono consci, esisterebbe questa dimensione parallela (un Limbo? Un Purgatorio? Un’area di transito?) dove l’anima si rifugia prima di andare nell’Aldilà.
    Nota: il quale Aldilà, fortunatamente, qui non viene rappresentato, le spiegazioni e le rivelazioni si limitano all’arco che va dalla gravidanza al primo passo successivo alla morte.
    Le spiagge sono individuali ma può capitare che possono essere raggiunte anche da altri individui particolari in situazioni ancor più particolari.
    Questa specie di confusione tra il nascere e l’essere morti serve a Kojima anche per sfogare la sua mania per i cordoni ombelicali. Ma tra le tante altre ossessioni che si percepiscono lungo tutto il gioco (balene volanti o spiaggiate, nenie infantili, maschere, doni ricevuti durante l’infanzia, bambole rotte e trafitte da chiodi, ponti ecc.), la parte del leone la fa il catrame, una specie di versione oscura del liquido amniotico da cui possono emergere non bambini ma “anime prave” e altri orrori assortiti, ma che può anche sostituire le lacrime in occhi assetati di vendetta.
    La trama, in definitiva, è enorme e molto complessa, i plot hole sono apparenti stante che c’è una risposta a tutto nei dialoghi (soprattutto nella fase finale) e nell’enorme massa di documenti e messaggi che bisognerebbe trovare il tempo e la voglia di leggere anche se spesso una rivelazione apre altri dubbi come in un infinito gioco di specchi.
    In Death stranding infatti vengono trattati anche molti altri temi: il principale è la necessità della comunicazione, ma hanno peso anche l’istinto di protezione genitoriale; i possibili conflitti tra etica, patriottismo, lealtà; l’egoismo, l’inclusività, il rimorso, l’avidità di potere, il rifiuto di essere come si è ecc..
    Ma in tutto questo turbine filosofico e tra i (forse troppi) intermezzi filmati c’è anche spazio per un po’ di gameplay?
    La risposta è decisamente sì anche se in maniera tutt’altro che convenzionale.
    Al suo esordio Death stranding fu scambiato dai detrattori per un “simulatore di facchino” e le vendite fecero un po’ di fatica a ingranare. Che non fosse semplicemente così si poteva facilmente evincere già dai trailer, non fosse altro che per una spiazzante bizzarria: il protagonista si porta sempre dietro una specie di marsupio di plastica trasparente contenente un feto vivo.
    È un gioco che non somiglia a (quasi) nessun altro e ci vuole tempo per capire dove voglia andare a parare.
    Lo scopo del protagonista, Sam Porter Bridges, all’inizio è quello di tirare a campare facendo il trasportatore, ma in seguito finirà per dover tentare di decifrare i perché del passato e di cercare di dare un qualche futuro ai superstiti dell’Apocalisse.
    A questo scopo dovrà trovare le vie e i mezzi per raggiungerli e garantire di nuovo le comunicazioni. Quindi il gameplay sarà principalmente costituito dai viaggi e dalla fatica di organizzarli e portarli a termine. L’estrema fisicità del protagonista e del mondo circostante fa da contraltare al preponderante substrato esoterico. Insomma: è un gameplay che probabilmente annoierà a morte molti giocatori, ma è indiscutibilmente uno dei più originali di sempre.
    Non dimentichiamo che Kojima è il vero inventore dello sthealth videoludico (con “Metal gear solid” del 1998 era arrivato prima di “Thief: The Dark Project”) e i suoi lavori precedenti provano quanto sia forse il più bravo di tutti nel gunplay con visuale in terza persona.
    Nel potenzialmente splendido ma infelicemente incompiuto “Metal gear solid 5” (2016) aveva portato alle estreme conseguenze la quantità di azioni eseguibili dal protagonista. Nelle parti sthealth e in quelle di azione e di esplorazione le modalità possibili erano in un numero assai superiori a quello dei pulsanti del pad. Quindi, oltre alle ovvie accoppiate per le combo, spesso la differenza la faceva la diversa pressione sui tasti.
    Lo stesso avviene in “Death stranding”: con un semplice tocco sul tasto “azione”, per esempio, Sam tira un pugno. Per accendere un terminale si deve invece esercitare una pressione assai più lunga dello stesso tasto.
    Analogamente: nel corso degli spostamenti, con premendo fuggevolmente il tasto “B”, Sam si siede. Poi, col tasto “azione”, si massaggia le spalle, premendo a lungo sempre il tasto “B” Sam si addormenta.
    Raccontato così il tutto sembra assai macchinoso ma, all’atto pratico, si impara presto e diventa agevole anche la navigazione nei numerosi e articolati menù che all’inizio possono spiazzare.
    A questa estrema mole di azioni possibili corrisponde una gestione della fisica che non si era mai vista finora, soprattutto quando il povero Sam deve affrontare i terreni più accidentati, sia a piedi che con qualche mezzo meccanico.
    Il peso trasportato influisce sia sull’equilibrio che sulla tenuta fisica in funzione dei tempi di percorrenza, quindi a Sam capita di dover “riprendere fiato” e riposare, ma spesso le condizioni climatiche e/o la presenza di pericoli assortiti rende l’azione ardua o addirittura impossibile.
    La morfologia del terreno mette continuamente il nostro eroe in difficoltà: anche se esiste sempre un percorso possibile, gli ostacoli e le pendenze costringono a cercare affannosamente le vie meno impervie cercando di evitare i vicoli ciechi. Altrettanto varie sono le arrampicate e, ancor più, l’interazione con le asperità del terreno: Sam può inciampare e perdere l’equilibrio, rotolare duramente a terra, perdere o rovinare il carico.
    Molto divertenti sono, in questi casi, le imprecazioni che gli sgorgano furibonde. Analogamente, quando è su un veicolo, Sam reagirà all’urto con le rocce emergenti esprimendo il suo dispetto, mentre paleserà la sua soddisfazione quando, finalmente, avrà trovato varchi più agevoli.
    Il tutto con straordinaria puntualità e accompagnato da animazioni che definire perfette è riduttivo.
    Insomma: progressivamente ci dimentichiamo che stiamo muovendo un insieme di pixel e ci sembrerà di avere a che fare con una persona reale. Miracoli del progresso tecnologico nei vg.
    C’è anche un po’ di gunplay anche se, per ragioni che verranno presto spiegate nel gioco, è altamente sconsigliabile uccidere un essere vivente dal momento che ogni nuova morte può provocare una catastrofe immane (ma su quest’argomento non aggiungo altro per non spoilerare ulteriormente).
    Il motore grafico, che è quello rinomatissimo di “Horizon zero down” di Guerriglia Games, fa mirabilmente il suo lavoro, resta sempre incredibilmente stabile e senza incertezze. Anche nelle situazioni più affollate, nei momenti più concitati, con le visuali più ampie, con gli ambienti più densi, il framerate resta graniticamente fisso. Da un punto di vista meramente grafico il gioco garantisce tutte le modalità più avanzate. Inoltre le segnalazioni di bug o crash sia su PC che su console sono sempre state quasi inesistenti.
    Fuori parametro è anche il comparto sonoro. Gli accordi di accompagnamento fanno egregiamente il loro lavoro sottolineando le atmosfere senza essere troppo invasive e ripetitive. Ma quello che più impressiona sono i suoni ambientali, mai così espressivi. Sottolineano con estrema espressività sia gli eventi naturali che le situazioni “elettroniche”, quando, per esempio, si esce dal ricovero sotterraneo o si attiva un terminale.
    Inoltre c’è una gran quantità di brani musicali originali e di alta classe che si sbloccano andando avanti nel gioco. I più sono del gruppo Low Roar, un gruppo islandese fondato dal geniale Ryan Karazija purtroppo recentemente e prematuramente scomparso.
    Il primo di questi brani che possiamo ascoltare è questa meraviglia:

    Anche il doppiaggio italiano è di prim’ordine.
    Nota: quando vengono introdotti nuovi personaggi appare in sovraimpressione sia il nome dell’attore che ha prestato le sue fattezze che il nome della sua voce nella nostra lingua.
    In definitiva: è tutto così perfetto?
    Purtroppo no, così com’è strutturato DS può annoiare e non piacere a una grande massa di giocatori.
    In primo luogo, come dicevamo, si spara pochissimo e, in generale, il ritmo è molto lento e riflessivo, quasi come in un’Avventura Grafica o in un Walking Simulator.
    Ma il problema forse più spinoso è la sovrabbondanza dei filmati, già invadenti all’inizio ma ancor più alla fine del gioco: gli ultimi capitoli sono letteralmente e quasi esclusivamente “cinema”.
    Grande cinema, per carità, Kojima gode di un formidabile talento naturale per la regia e forse, in questo caso, è stato anche aiutato dai due registi abituati a collezionare i premi più prestigiosi nei Festival più blasonati. Si tratta addirittura di Guillermo del Toro e di Nicolas Winding Refn che hanno infatti prestato le loro fattezze a personaggi affiancandosi a un grande cast di famosi attori.
    Malgrado tutta questa ricchezza chi nei vg cerca soprattutto il gameplay si ritroverà a disinstallare il gioco con procedura d’urgenza.
    Inoltre, anche se la qualità visiva delle parti giocate e quelle filmate è equivalente, in alcuni frangenti lo stacco può risultare troppo invadente e un po’ fastidioso.
    Ricordo le reazioni furiose a una scena in cui Sam corre su una spiaggia al rallentatore e con una splendida donna bionda. Sembra lo spot televisivo di una lozione per capelli con la tremenda aggravante che Norman Reedus abbandona la sua fissità granitica e si scioglie in un sorriso caramelloso.
    Nel corso della prima run questa sequenza mi lasciò costernato e ricordo le furiose proteste sul web. Questa volta però mi sono reso conto che, quella che avevo percepito come un’imperdonabile caduta di stile, è in realtà l’ennesimo e plateale easter egg del diabolico Hideo, uno dei suoi tanti sberleffi ai giocatori.
    L’unico vg che Death Stranding mi ricorda è, curiosamente, Planescape Torment: in entrambi si approfondiscono i temi della vita e della morte; protagonista e comprimari sono tutti carismatici, fuori dagli schemi e con psicologie estremamente approfondite; le invenzioni sgorgano a getto continuo; il combat è scarso e di secondaria importanza; si alternano immagini splendide con altre spiazzanti e/o terribili; la realtà più bruta trascolora in dimensioni oniriche senza soluzione di continuità ecc. ecc..
    Entrambi, inoltre, raccontano con lunghe sessioni non interattive: Death stranding con filmali, Planescape Torment (vista l’epoca in cui uscì) con interminabili muri di testo.
    Le differenze sono però altrettanto basilari: PT è l’archetipo dei GDR con le sue vertiginose ramificazioni nel plot e perfino nell’orientamento del protagonista. DS vive principalmente per un suo rigido impianto narrativo e quindi si limita a correre su binari prestabiliti, l’evoluzione di Sam è prevista dalla trama, la libertà di movimento è più apparente che reale.
    Analizzare Death stranding con i dovuti approfondimenti richiederebbe lo spazio di un’enciclopedia, ognuno dei comprimari, per esempio, meriterebbe un capitolo a parte…
    Ma questo WOT ha già superato ogni possibile limite di sopportabilità :emoji_blush:
     
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  4. alaris

    alaris Supporter

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    Ti sei superato!!!! Ottima approfondita recensione, lettura veloce tutto molto interessante, domani la leggerò con calma a quest'ora sono stanco:emoji_older_man:,
    La citazione riporta la parte che più mi annoia di questo gioco e non perchè la molo di testo mi spaventa anzi, amo i Tes e la loro lore, libri, ecc. ma in questo caso approfondisco quando voglio io, non quando lo decide il game e non devo subirmi le scene cinematografiche lunghissime ed imposte dal gioco...non so se sono riuscito a spiegarmi...comunque ottima, come sempre, la tua disanima.
     
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  5. Varil

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    Sono d'accordo. Le cutscene lunghissime stuccano non poco. Non ho problemi con giochi simili ad avventure grafiche o perfino con i walking simulator (se di pregevole fattura) ma a mio parere è dimostrato sin dal 1998 con il primo Half-Life che le cutscene non servono nella grammatica videoludica, a mio parere. Scimmiottare il cinema è la cosa più sbagliata che un videogioco possa fare. Come dice il buon Mauri, parere.
     
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  6. f5f9

    f5f9 si sta stirando Ex staff

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    per certi versi sono d'accordo, infatti sottolineavo che anche per me , verso il finale, i tempi di non interattività sono un po' eccessivi
    però:
    1) gioconi come questi (IMHO) il cinema non lo imitano, lo uccidono superandolo brutalmente e relegandolo a forma di espressione obsoleta
    ci sono pezzi, anche negli ultimi capitoli così "cinematografici" in cui l'interazione e i filmati duri si integrano armoniosamente senza soluzione di continuità (non posso dire come e quali per non spoilerare)
    peccato che questi casi sono pochi, quando e se Hideo imparerà a dosare e alternare meglio le cose forse arriverà a realizzare l'espressione multimediale perfetta
    2) qui la componente fondamentale è la narrazione (seguita dalla magnificenza visuale e dai virtuosismi tecnici)
    ribadisco che in certi classici fondamentali (PT, Kotor 2 per dirne un paio) per sviluppare e approfondire le storie a un certo punto si finiva per dover ricorrere a tremendi WOT, oggi la tecnica consente di non farsi sanguinare gli occhi sostituendo quelle letture con dei filmati, mi sembra comunque un passo avanti non da poco
     
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