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Videogiochi, Maturità e Game Design: siamo messi così male? 2016-11-27T11:24:41+01:00
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    Videogiochi, Maturità e Game Design: siamo messi così male?

I VIDEOGIOCHI SONO ROBA PER BAMBINI

Tra le leggende metropolitane che da sempre il medium videoludico si porta dietro, ce n’è una che non passa mai di moda: “i videogiochi sono roba per bimbiminkia!!!”. Questa cazzata (perché di cazzata stiamo parlando e non me ne vogliamo gli intramontabili amanti del “politically correct”) è stata ripetuta talmente tante volte (ingiustamente) che ormai è diventava impresa ardua riuscire a scardinarne le fondamenta, poiché l’immaginario collettivo de “laggenteh” (ovvero la fetta di popolazione che spesso, totalmente estranea al medium, parla senza sapere cosa sta dicendo) continua a rimanere saldamente ancorato ad un’idea di fondo: si tratta “solo di un giochino” ed in quanto tale deve limitarsi ad  intrattenere e divertire i bambini (gli “adulti” devono pensare ad altro, giustamente). La problematica è stata sviscerata in lungo e largo e di dare capate contro un muro non ho proprio voglia. Quello che mi interessa però far notare è ciò che va ben oltre la solita diatriba: una concezione di videogioco terribilmente limitante. La cosa più buffa è che questa concezione non è prerogativa delle sole mamme preoccupate per i propri figlioletti alienati, ma ci sono intere fette di sostenitori “ambigui” anche tra gli stessi videogiocatori. Basti pensare a coloro che pesano solo il graficone, solo la quantità a discapito della qualità, solo la violenza fine a se stessa, solo l’aspetto “arcade” (quelli che “se non c’hai la sfidah uber proh non stai videogiocandoh!”), a coloro che comprano in base al metascore, che vogliono solo usufruire di un medium visto come mero intrattenimento da “una botta e via”, senza mai andare oltre la superficie o pretendere qualcosa di più. La lista sarebbe lunga e, seppur queste siano tutte posizione rispettabili (non proprio tutte, ma amen), si tratta comunque di uno sconfortante processo di semplificazione e castrazione delle potenzialità che il medium potrebbe esprimere (ed il danno se lo sorbisce l’intero processo qualitativo dei prodotti finali, non solo una piccola fetta).

Il dramma di una madre che da ascolto agli slogan demagogici de laggenteh!

Il dramma di una madre che da ascolto agli slogan demagogici de laggenteh!

A questo va aggiunta anche la totale mancanza di una visione d’insieme che permetta di scavare nel profondo e far luce sulla vera essenza di questi “giochini”. Sì, perché l’essenza del videogaming non è solo quella di intrattenere, vendere e fare felici i bimbiminkia, ma dietro la sbrilluccicante facciata c’è una complessità di fondo non indifferente, col fine ultimo di dare forma ad una dottrina sorretta dalla genialità dei cosiddetti “creativi”: sto parlando della dottrina del Game Design. La figura chiave di questa dottrina è, ovviamente, il Game Designer, da sempre icona leggendaria e tra le più importanti nel panorama del videogaming. Eppure ci siamo mai chiesti cosa ne pensano ‘sti tizi di queste problematiche legate alla superficialità, alla semplificazione, alla maturità, ai rischi, oppure alle numerose capacità modulari che sono richieste per svolgere questo arduo compito? Ecco, oggi ce lo chiediamo (seppur non in maniera esaustiva) ed andiamo oltre le solite banalità, ponendo la nostra attenzione su alcune interessanti riflessioni comparse sulla rete nelle scorse settimane. Due su tutte: l’articolo di Warren Spector su Eurogamer e l’intervista di Richard Garriot su PCGamer, entrambi ex colleghi dei bei tempi di Origin System (quando con Ultima si insegnava al mondo occidentale come creare un RPG) e facce di una stessa medaglia che denuncia alcune mancanze dell’attuale industria videoludica.

 

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Un tempo erano le limitazioni tecniche delle macchine da gioco ad ammazzare la voglia di osare e sperimentare: oggi ci sono il Marketing e Metacritic!

IL PARADOSSO TEMPORALE: OGGI SI PUO’ FARE MA…VENDE?

Creare un videogioco è qualcosa di altamente complesso. Non tutti lo hanno capito però. Per esempio “Laggenteh” si rifiuta di comprenderlo e segue, di solito, il criterio dello “sticazzi: io pago!”. Legittimo, comprensibile e condivisibile. Infondo si parla di acquisti ed i soldi ognuno li spende come meglio crede, fino a prova contraria. Il piccolo problema nasce quando non si è in grado di cogliere le sfumature di complessità che vi si celano in background e senza un minimo di cognizione chi ce lo da tutto ‘sto diritto di sparare minchiate sul medium (dicendo che è per bambini), di criticare (dicendo che istiga alla violenza) e di ridurre il suo immenso potenziale a qualcosa di banale e non adatto a gente troppo cresciuta? In pratica ci si dimentica che la banalizzazione del medium non è solo un danno per l’immagine della nostra passione, ma è soprattutto la mortificazione di una forma d’arte dal potenziale ancora immensamente inespresso e della professionalità di persone che hanno dedicato parte della loro vita a questo mondo. Certo, non tutti lo hanno fatto per scopi nobili e la pagnotta a casa è pur sempre di vitale importanza in questa forma d’arte “industrializzata” (non ci prendiamo in giro insomma). C’è però anche qualcuno che ha svolto questo ruolo cercando di lasciare un segno, di offrire nuove strade e nuove sfide per le generazioni future, dando un esempio a coloro che verranno e dimostrando che non si tratta solo di “giochini”, ma molto di più. Uno di questi è sicuramente il leggendario Warren Spector che qualche giorno fa ha scritto un interessantissimo editoriale sul tema del “dove sono gli esempi nel mondo dei videogiochi?”. Bella domanda. Ma vediamo di approfondire ulteriormente, tirando in ballo anche le polemiche che sono sorte dopo la denuncia fatta da Richard “Lord British” Garriott riguardo la mancanza di Game Designer con le palle.

La banalizzazione del medium non è solo un danno per l’immagine della nostra passione ma soprattutto la mortificazione di una forma d’arte ancora immensamente inespressa.

Partiamo dal presupposto che Spector è un Game Designer con le palle, o almeno lo era. Idem vale per Garriott. Sono entrambi facenti parte della cosiddetta “vecchia guardia”, pionieri di un’epoca in cui ci si doveva armare da soli (senza le spalle coperte) per venire fuori dal mucchio e non c’erano tutte le tecnologie ed i supporti odierni (da cui nasce il famoso motto “all’epoca non era implementabile!”). È anche vero che in quel periodo era tutto nuovo, tutto da scoprire, e quindi risultava molto più facile passare alla storia con qualche innovazione capace di segnare il futuro del medium. Dunque si viene a creare una sorta di rapporto paradossale tra “tecnologia e sperimentazione”, laddove un tempo c’erano valanghe di idee innovative e pochi mezzi per metterle in pratica, ed ora che ci sono i mezzi a sufficienza sembrano venire a mancare le valanghe di idee (o qualcuno le ammazza sul nascere). Sarà perché ormai ci è stato mostrato quasi tutto, sarà perché con l’aumento del potenziale aumenta anche la complessità di gestione (e soprattutto i costi), ma di fatto sembra quasi che parole come “rivoluzione”, “evoluzione” e “innovazione” siano diventate una chimera di “ciò che potrebbe essere ma non è, perché qualcuno non vuole che lo sia”.

 

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Lamentarsi della mancanza di contenuti maturi nel medium videoludico non ha prezzo: per tutto il resto puoi sempre creare un paio di videogiochi su Topolino!

DOVE SONO GLI ESEMPI NEL MONDO DEI VIDEOGIOCHI?

Ed è proprio questo il guanto di sfida che Spector lancia ai lettori: dove sono gli “esempi” nel grande mercato del mainstream? Chi è che oggi può ritenersi pioniere ed innovatore di nuove correnti di pensiero videoludico se ormai sembra essersi tutto piegato a meccanismi e tabelle di marcia dettate principalmente da regole di marketing che premiano solo il profitto? Chi ha il coraggio di rischiare sapendo che nessuno (o solo rarissime eccezioni) finanzierà un progetto coraggioso e privo di garanzie di introito? Potrei continuare per ore a porre questo tipo di quesiti ma il problema non si risolve se ci limitiamo solo alla “denuncia”. Andrebbe fatta una riflessione molto seria e strutturale ai piani alti, dove la gente in “giacca e cravatta” delinea le strutture interne ai vari team e detta linee guida che poco hanno a che spartire con la dottrina del Game Design. Un singolo Game Designer, per quanto talentuoso sia, non potrà mai ergersi contro un’impalcatura titanica fondata su anni ed anni di esperienze di marketing. Non a caso Spector denuncia la mancanza di contenuti maturi che siano capaci di ambire al livello già ampiamente raggiunto da altre forme d’arte “industrializzate” (tipo il cinema). Purtroppo, prima di parlare di maturità e sperimentazioni future, andrebbe cambiato il rapporto tra “chi finanzia” e “chi fa fruttare il finanziamento”, tra “chi decide” e “chi esegue”, tra “chi rischia” e “chi garantisce”, tra “chi vende” e “chi compra”. Ormai i costi di sviluppo sono lievitati al punto tale che per fare un gioco “tripla A” servono milionate di dollari e le persone che hanno il coraggio di assumersi rischi notevoli diminuiscono anno dopo anno. In poche parole: più si va avanti e meno ci sarà gente disposta a rischiare. Punto di non ritorno? Può darsi, ma almeno – in teoria –  qualcosa si potrebbe fare per cominciare una fase di cambiamento radicale. In questa ipotesi entrerebbero in gioco quattro attori fondamentali:

  1. l’utente finale (che dovrebbe cominciare a pretendere di più, in tutti i sensi, e non ridurre il medium a “roba per bambini”);
  2. il giornalismo di settore (che dovrebbe sforzarsi, prima o poi, di tirare fuori una forma di critica che vada oltre il “consiglio per gli acquisti” e superi il paradigma “io ti offro contenuti e tu mi offri pubblicità”);
  3. i Game Designer (che devono ambire a qualcosa di più del solito compito a casa per guadagnare la pagnotta, re-inventandosi regole, tecniche, mentalità, assetto, finalità e sdoganando quella “maturità di contenuti” che il cinema da tempo può vantare);
  4. i Publisher (che devono ridimensionare le spese, incoraggiare anche il nuovo e non solo arroccarsi su brand di sicuro richiamo, col rischio di togliere spazio vitale a tantissime altre opportunità creative).

In fondo che minghia di senso ha parlare di “creatività” se spesso si tratta solo di un copia/incolla di formule assodate anni fa e poi riproposte continuamente con vesti diverse? È sicuramente giusto pretendere contenuti più maturi, nuovi esperimenti e magari anche un riconoscimento sociale di una posizione meno “bambinesca” di un medium che in se racchiude musica, cinema, letteratura ed altre forme d’arte. Ma prima di arrivare a questo bisognerebbe pretendere un cambio di assetto generale sia ai piani alti che ai piani bassi. Lo so, sono tante belle parole e poca sostanza, ma riflettere sul tema non può che aprire un ulteriore dibattito verso l’inizio di un processo di evoluzione (tecnica, mentale e artistica) che raccolga in se tutti e 4 gli attori fondamentali appena citati, superando la rigidità che i publisher hanno ormai imposto a tutta l’industria o le auto-limitazioni che i designer si impongono per trovare qualcuno che gli dia da mangiare. Perché non sta scritto da nessuna parte che l’innovazione debba essere prerogativa dei soli “indipendenti” e chi ha i mezzi per fare grandi cose non deve essere continuamente “frenato” da gente in giacca e cravatta. Quella stessa gente che ne capisce molto di statistica e marketing, ma poco o nulla di design, e quando questa gente mette il naso nei vision document di un designer c’è sempre un alto rischio di sputtanamento del lavoro di un professionista del settore.

 

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Lord British : CRPG = Rocco Siffredi : Pornografia

 

LORD BRITISH CONTRO TUTTI!

Parallelamente allo spunto riflessivo offerto dall’editoriale di Spector è scoppiata una polemica contro Lord British qualche settimana fa. In un’intervista su PCGamer il padre di tutti i GDR Occidentali ha usato toni forti (molto auto-referenziali) nei confronti dell’intera categoria degli odierni Game Designer. Della serie “Io sono lo Re e voi non capite un cazzo!”, non si è risparmiato di certo le critiche, spiegando che secondo lui, tolti Chris Roberts, Pietro Mulinello e Will Wright, non c’è mai stato un Game Designer del suo calibro tra gli sviluppatori di videogiochi per computer. Qualche ora dopo è scoppiato il putiferio sul web ed i social network, ed a seguito di una valanga di polemiche (che hanno messo in luce un certo “butthurt” da parte di diversi designer meno famosi di Garriott – alcuni esempi quiqui e soprattutto quiil buon Garriott ha dovuto mettere in rete un PDF di “chiarimento e scuse”, per risolvere il malinteso mediatico, causato apparentemente da “parole estrapolate dal contesto”. Insomma una specie di “Mi consenta, sono stato frainteso!” (e qualcuno su RPG Codex ci ricorda quanto quella frase di una nostra nota conoscenza politica sia ormai di fama mondiale). Sicuramente quel pezzo è ambiguo e da una prima lettura il messaggio che passa è davvero troppo auto-referenziale (a livelli che manco Hideo Kojima o lo stesso Mulinello hanno mai osato raggiungere…forse…), ma ritornando al discorso del “andare oltre la banalità della superficie” e scavando a fondo nella questione, cosa ne traiamo di tanto interessante? Che Lord British avrà pure sbagliato nei toni e si sarà dimenticato di non essere nella posizione più autorevole per dire quelle cose oggi (anni fa avrebbe potuto calcare ulteriormente la mano senza problemi, a mio giudizio), ma la sostanza non cambia lo stesso: gran parte dei Game Designer di oggi sono pigri, eseguono solo gli ordini, mancano di nuove idee, voglia di svecchiare, non hanno tutto il bagaglio di competenze che magari un tempo si era costretti ad avere (quando si era in pochi e dovevi affidarti al classico “Jack of all Trades”) e quindi non osano superare i limiti.

Il padre di tutti i GDR Occidentali ha usato toni forti contro l’intera categoria degli odierni Game Designer.

Qualcuno ora, giustamente, dirà “ma chi sei tu per dirlo?”. Nessuno, infatti mi limito ad usare le parole di Garriott (che comunque ha fatto la storia di un genere videoludico) e mi baso su un qualcosa che col tempo molti appassionati tendono a dimenticare o demonizzare: la memoria storica. Quella memoria storica che “laggenteh” non ha o ignora. Quella memoria storica che è l’unico vero elemento argomentativo che permette la comprensione a 360° (o almeno a 270°) di come si sia evoluto il medium videoludico dalla fine degli anni ’70 ad oggi. Quella memoria storica che permette di comprendere almeno una parte di quell’immenso peso specifico che hanno avuto personaggi come Garriott, Miyamoto, Spector, Newell, Suzuki, Carmack, e soci vari nell’evoluzione del medium. Insomma, non gli dobbiamo di certo rendere grazia nei secoli dei secoli (e molti di loro non hanno nemmeno tutto questo diritto di ergersi a “Vate Supremo” oggi), ma che questi designer possano quantomeno esprimere una forte critica all’attuale livello di preparazione degli odierni colleghi è una libertà che (più di molti altri dopo di loro) possono largamente prendersi, a mio giudizio. Alla fine c’è una fondamentale e non sottile differenza tra le due generazioni di sviluppatori: in passato i primi han fatto tanto con poco; oggi i secondi fanno poco con tanto.

 

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Nel bene o nel male questi loschi tizi hanno contribuito all’evoluzione del Medium videoludico……..poi qualcuno ha cominciato a fare le cose al contrario (sì Mulinello, ce l’ho proprio con te!)

 

VOGLIAMO I NOMI!

C’è però un errore dialettico nella denuncia di Garriott: mancano esempi concreti. Certo, fare dei nomi e cognomi sarebbe stato poco saggio (visto il livello di “bruciore di culo” che si è scatenato in giro per il web è anche comprensibile evitare), ma così sembra uno “sparare ad altezza uomo nella folla”. Sarebbe stato molto più interessante spiegare nello specifico quali siano queste mancanze odierne, quale sia il copia/incolla che si perpetra da anni, quali percorsi e capacità manchino agli odierni designer ed in che modo sia cambiato il peso che un singolo designer può oggi avere nell’assetto di un team (soprattutto se si tratta di un team non dipendente e che deve tener conto dei dettami del publisher che gli passa il pane). Sappiamo bene che Lord British ha praticamente fissato una gran parte delle basi su cui poi tanti altri hanno fatto evolvere il genere dei GDR, ma criticare a viso aperto (e con specifici esempi) coloro i quali oggi peccano negli aspetti da lui tirati in ballo sarebbe stato anche una bella rivincita personale (una sorta di “senza di me voi oggi non avreste avuto tutto questo successo: ricordatevelo sempre!”). La frecciata, se così vogliamo chiamarla, sarebbe arrivata a chi oggi vende milioni di copie riproponendo concept ed idee già viste e straviste, a quella fetta di game designer che si limitano a fare “il compito a casa”, a fare contenti i publisher e Metacritic (che ormai ha uno strapotere ridicolo sull’industria ed i contratti tra sviluppatori e finanziatori) e non sfidano mai le leggi di gravitazione universale per dimostrare che un futuro pieno di nuove conquiste è alle porte (lascio a voi lettori la libertà di immaginazione). È facile intuire il motivo per cui questi nomi non siano saltati fuori, ma non è una giustificazione sufficiente per sparare a zero e poi ritrattare come se niente fosse accaduto. Inoltre con questa polemica Lord British si è attirato addosso un quantitativo di “simpatia” talmente alto che se il suo Shroud of the Avatar non sarà all’altezza delle aspettative ci sarà una grossa possibilità che gli appassionati scatenino una shitstorm di livelli epici e gli tirino addosso un paio di camion di pomodori geneticamente modificati. E non so fino a che punto gli sia convenuto tutto questo casino mediatico a livello personale.

 

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Un po’ di ironia su due mostri sacri del game design e della storia dei videogiochi.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

L’argomento è talmente vasto che potremmo star qui giorni a dibatterne e scriverne, ma cerchiamo di arrivare ad una conclusione finale. Cosa vogliono comunicarci Spector e Garriott con le loro rispettive “denunce”? Che il problema dello stallo di idee e della mancanza di contenuti maturi nell’attuale panorama videoludico (unito alla mancanza di un folto numero di Game Designer in grado di offrire queste cose) non lo si può affibbiare ad un solo ed unico soggetto e nemmeno si può pretendere che a risolverlo sia un singolo attore citato nell’elenco poco sopra. La situazione è quella che è per tutta una serie di fattori concatenati tra loro (tecnici, economici, tempistici, artistici e soprattutto mentali), quindi per evolvere c’è bisogno di sinergia, collaborazione tra le parti, di denuncia mediatica e concretizzazione di quest’ultima (o rimangono solo chiacchiere), e c’è bisogno soprattutto di superare quella coltre di menefreghismo che spinge ognuno a pensare al proprio orticello.

Porco boia ragassi, non è che se ci metti una telecamera in mano al Koggima poi ti tira fuori un videogioco! Siam mica qui a spiegare a Lord British che Will Wright in realtà è Marco Columbro?

Il medium è universale, arriva a toccare qualsiasi campo artistico e sfrutta varie forme di espressione in modi del tutto rivoluzionari rispetto a quelle classiche, quindi stiamo parlando di una sfida non fine a se stessa e che un domani potrebbe sdoganare addirittura forme di comunicazione rivoluzionarie, applicandole anche a livelli di intrattenimento che esulano dal mero “videogioco” (penso alla realtà virtuale, per esempio). Se ci troviamo di fronte all’ennesimo stallo in cui nessuno ritiene che ci sia il bisogno di cambiare la situazione, allora vuol dire che non c’è alcun motivo per lamentarsi. A maggior ragione se poi, per campare, si scende a compromessi e si tirano fuori progetti che non vanno ne verso la via di una maggiore “maturità” e ne verso la via di un’evoluzione generale dell’offerta videoludica (mi riferisco, per esempio, al misteriosamente scomparso “Ultimate Collector”, una sorta di pseudo-gestionale per Facebook che di certo non ti aspetti da parte di un guru del passato come Lord British). Eppure i nostri cari Spector e Garriott bacchettano pubblicamente l’industria, ma non devono dimenticare l’importanza del passo successivo: metterci la faccia ed agire pragmaticamente, facendosi sentire ai piani alti, cambiando mentalità e regole, tirando fuori qualcosa di veramente innovativo, altrimenti ha poco senso polemizzare sullo stato di salute di una forma d’arte se poi non si è disposti in prima persona a farsi carico del vento di cambiamento. Come dite? Vi ricorda qualcosa? Esatto, è proprio come in politica e qualcuno deve cominciare a capire che, porco boia ragassi, non è che se ci metti una telecamera in mano al Koggima poi ti tira fuori un videogioco eh! Siam mica qui a spiegare a Lord British che Will Wright in realtà è Marco Columbro?

 

[Questo articolo è tratto da Videogiochi, Maturità e Game Design: siamo messi così male?  scritto da Carmelo Baldino ed originariamente pubblicato su The Game Shelter]
Webdesigner e grafico per hobby, troll di professione. Gli è apparso in sogno il suo unico Dio (Chris Avellone) e da quel giorno pensa di essere il suo araldo. Se ne va in giro per forum e social network a predicare il “Verbo del Sacro Ruolismo” e portare un barlume di speranza nei luoghi in cui Bioware e Bethesda hanno lasciato solo macerie.